“Una Piccola Storia”: Cagliari, Il quartiere Castello.  Ecco la sua storia

 

Per secoli muto testimone della storia della città che si svolgeva ai suoi piedi, quasi inosservato e schivato per il suo aspetto malinconico e desolato, in attesa del suo momento che finalmente un giorno arrivò: questo è il colle che oggi chiamiamo Castello.

 di Sergio Atzeni

Nel 1216 il Giudice Barisone concesse ai Pisani di costruire una roccaforte, per poter difendere meglio i propri interessi di mercanti e per avere depositi per le mercanzie, così iniziò la lunga storia del colle.

I Pisani costruirono infaticabilmente le mura, le case e la prima chiesa chiamata S. Cecilia, forse nello stesso sito della odierna Cattedrale e chiamarono la fortezza Castrum Calari.

 

Per quei giochi politici, talvolta incomprensibili, i regnanti di S. Igia, capoluogo del giudicato di Calari, che sorgeva non lontano sulle rive dello stagno di S. Gilla, diventarono filo-liguri e con ciò firmarono la loro fine.

Nel 1258 una coalizione formata dai Pisani e dai Giudicati di Torres, Arborea e Gallura assalì la città di S. Igia e la distrusse.

Da quel momento il Colle fu l’unico erede della città Fenicio Punica e Romana di Caralis.

Il nome che i Pisani gli attribuirono, Castrum Calari, significava castello fortificato del Giudicato di Calari, nome medioevale che aveva sostituito l’antico Caralis o Carales.

Caralis, fu un primo approdo Fenicio, intorno al X sec. a.C. ed ebbe dignità di città solo con i Cartaginesi dal 509 al 238 a.C., per svilupparsi ulteriormente con il dominio Romano tra il 238 a.C. e il 456 d.C.

I Punici preferirono edificare la città in pianura evitando i colli che la coronavano, lungo il golfo nacquero dei borghi mentre il centro con la piazza del mercato, secondo il costume Cartaginese, si trovava vicino allo stagno di S. Gilla, il colle di Castello, forse in quel periodo, fu un’acropoli e probabilmente continuò ad esserlo anche nel periodo Romano.

Con l’arrivo dei Romani, Caralis si consolidò come tessuto urbano e si arricchì di strade lastricate, statue, magazzini e si incominciarono a costruire sui pendii ville patrizie e l’Anfiteatro, capace di diecimila posti, segno inconfutabile di una città in crescita.

Castello, probabilmente, era adibito a riserva idrica con la costruzione di capienti cisterne per la raccolta dell’acqua piovana; forse ospitò un piccolo contingente militare con compiti di avvistamento, data la eccezionale vista che si aveva sul golfo.

Con la decadenza dei Romani e l’arrivo dei Vandali e dei Bizantini per Caralis iniziarono i secoli bui e attaccata, a partire dal 700 d.C. dai Mori, fu pian piano abbandonata a favore di S. Igia e rimase solo un ricordo, nemmeno tanto chiaro, nel popolo.

Il Giudicato che nacque nel IX secolo portava ancora il suo nome, che per metatesi si trasformò in Calari, ma fu anche chiamato Pluminus per i fiumi che vi scorrevano.

La città di Caralis scomparve quindi per sempre e Castello può essere considerato solo l’erede legittimo di quella città ma non la stessa.

Dopo ottant’anni dalla fondazione della Rocca, nel 1297, il Papa di Dantesca memoria Bonifacio VIII, facendosi forte del diritto concesso alla Chiesa di Roma dal “Costitutum Costantini”, che poi verrà dimostrato essere un falso storico, istituì il “Regno di Sardegna e Corsica” concedendolo al Re D’Aragona Giacomo II.

Praticamente il Pontefice dava al re d’Aragona la cosiddetta “licenza d’invasione” per poter prendere possesso del nuovo regno e con questa mossa, risolse la guerra del Vespro scoppiata in Sicilia, allontanandone il Re Iberico che i siciliani avevano acclamato loro Sovrano, consegnando l’isola agli Angiò suoi partigiani. Il Papa otteneva inoltre che gli Aragonesi combattessero i Pisani, radicati ormai in Sardegna, che si stavano allontanando dall’orbita romana.

I Pisani si prepararono a fronteggiare l’inevitabile arrivo degli Aragonesi e nel 1305, sotto la direzione del sardo Capula, eressero la torre di S. Pancrazio e nel 1307 quella dell’Aquila e dell’Elefante, cingendo il colle di Castello con larghe e possenti mura.

Come supposto, gli Aragonesi arrivarono nel 1323 e conquistarono Castrum Calari nel 1324 scacciandone i Pisani.

Con gli Iberici Castello ebbe la dignità di capoluogo dell’isola, essendo prima sede del Governatorato Generale e dal 1418 residenza del Viceré.

La città fortificata assunse pian piano l’impronta Aragonese nell’architettura, nei costumi e nella lingua; il vecchio Castrum Calari fu chiamato alla Spagnola Caller e diventò città Regia, versando i tributi direttamente alla corona e non ad un feudatario. Agli Aragonesi nel 1479, con la costituzione del Regno di Spagna, si sostituirono i Castigliani e unico segno tangibile nella rocca, fu la cacciata degli Ebrei residenti e la distruzione della sinagoga che si trovava nella zona di via S. Croce; al suo posto fu eretta la basilica di S. Croce.

Sorsero le associazioni di artigiani chiamate Gremi, ma mancò negli indigeni l’unità e la coscienza di libertà: forse i castellani, dopo tanti secoli, si sentirono Spagnoli e altro non desideravano che la concessione di incarichi pubblici, cosa che avvenne di rado.

La classe dirigente, rigorosamente Iberica, aveva in mano tutte le cariche più importanti e non lasciava che i lavori e le attività più umili ai Sardi.

Il Parlamento veniva convocato di norma ogni dieci anni, era composto dai rappresentanti delle tre classi o Stamenti: Feudatari e Militari, Clero e popolazione delle città Regie; aveva solo il potere di approvare l’entità dei tributi che venivano fissati di volta in volta (donativo).

Il malcontento per l’esosità delle imposizioni fiscali, la grande povertà della massa e le carestie, culminò nel 1668 con l’uccisione nella plazuela, l’odierna piazza C. Alberto, del Marchese Agostino di Castelvì, capo riconosciuto della protesta ed importante esponente della nobiltà sarda.

Un mese più tardi venne assassinato il Viceré Marchese di Camarassa e per reazione vennero inquisiti e condannati a morte i nobili sardi: Don Francesco Portugues, Don Silvestro Aymerich, Francesco Cao ed il Marchese Di Cea.

Nel 1700, morì il Re di Spagna Carlo II senza lasciare eredi; fu designato a succedergli Filippo di Borbone Duca D’Angiò nipote del Re di Francia Luigi XIV; ciò non piacque alle potenze Europee che temevano una unione tra Francia e Spagna e ricusarono Filippo anteponendogli Carlo D’Asburgo Arciduca D’Austria un tempo sposato con la sorella del defunto Re Carlo II.

Scoppiò così una guerra tra Francia e Spagna da una parte, Austria, Inghilterra, Prussia, Olanda, Portogallo e Ducato di Savoia dall’altra.

Cagliari, dopo un breve bombardamento da parte di una flotta Anglo-Olandese, capitolò il 13 agosto 1708 ed insieme all’isola fu affidata al governo Austriaco.

Intanto Carlo III D’Asburgo era diventato anche Imperatore e altre nubi sembravano addensarsi nel palcoscenico Europeo: nel 1713 si giunse alla pace di Utrecht che riconosceva Filippo V sovrano di Spagna in cambio della cessione del regno di Sicilia ai duchi di Savoia e di Gibilterra e Minorca agli Inglesi. La Spagna, però, dopo qualche tempo ruppe il trattato e sotto la spinta del suo primo ministro, Cardinale Alberoni, inviò un corpo di spedizione in Sardegna rioccupandola.

Le potenze Europee si coalizzarono ancora una volta e col trattato di Londra nel 1718, costrinsero la Spagna a restituire il Regno di Sardegna all’Imperatore Carlo VI, il quale, per tenere in un unico regno Sicilia e napoletano, lo cedette ai Savoia in cambio dell’isola maggiore.

Fu così che dopo secoli di cultura Iberica, la Sardegna passò sotto l’influenza Italiana.

Castello subì ancora un passaggio di mano e questa volta determinante per il suo futuro; i nuovi padroni Sabaudi non modificarono quasi nulla delle vecchie prerogative ed ordinamenti ed il feudalesimo, con tutti i privilegi che ne derivavano, fu confermato.

Una situazione quanto mai confusa si creò in quegli anni, con i dominatori che avevano difficoltà col loro Franco-Italiano a farsi capire dai Sardo-Iberici.

La vita quotidiana non aveva subito grandi scossoni, era cambiato il comandante ma per chi doveva ubbidire non faceva alcuna differenza; i Viceré si susseguirono, le vessazioni dei Feudatari continuavano, la povertà e l’analfabetismo aumentavano. La situazione era tanto disperata che i regnanti Sabaudi avevano sempre in mente di tentare, al momento opportuno, lo scambio dell’isola con qualche altra terra che gli avesse conservato la corona.

Con la rivoluzione Francese ed il tentativo di esportare quelle nuove idee di libertà, Cagliari subì, nel 1793, un tentativo di sbarco ed inspiegabilmente, mentre i Piemontesi stavano a guardare, i cagliaritani con truppe miliziane, ricacciarono in mare gli invasori.

I nobili locali furono gli artefici di questo successo arruolando i volontari per difendere, non l’isola, ma i loro privilegi ed i loro feudi che con i Francesi avrebbero certamente perso.

Timidamente, la classe dirigente locale, cercò di ottenere come riconoscenza per la fedeltà al Re, dei vantaggi riassunti in cinque punti: riunire gli Stamenti almeno ogni dieci anni, riservare ai Sardi gli impieghi pubblici, riconfermare tutti i privilegi, creare un nuovo ufficio della Reale Udienza, istituire  un ministero per gli affari della Sardegna; richieste modeste che oggi ci fanno sorridere ma che allora erano considerate quanto di meglio si potesse ottenere.

Il Re, dall’alto del suo potere dispotico, disprezzando quella terra che nonostante gli avesse dato un regno, gli diede anche molti problemi, negò le concessioni senza comunicare agli interessati le sue decisioni.

Il 28 Aprile del 1794 Castello fu così protagonista di una rivolta che si festeggia ogni anno ed è conosciuta come “Sa Die de sa Sardigna” e che si concluse con la cacciata dei Piemontesi dalla Rocca e da tutta l’isola.

L’atavica diffidenza e l’invidia tra i nobili locali portò alla divisione in gruppi che, invece di creare un fronte comune, si combatterono fra loro e Girolamo Pitzolo, eroe della cacciata dei Francesi, cadde in disgrazia; Giovanni Maria Angioy inviato a Sassari per sedare una rivolta antifeudale lasciato in balia di se stesso fu costretto a scappare e rifugiarsi in Francia.

Intanto il Re con qualche piccola concessione, ottenne la restaurazione ed inviò il nuovo Viceré a Cagliari.

Contemporaneamente Napoleone occupò il Piemonte costringendo i Savoia a fuggire ed e rifugiarsi a Cagliari che divenne dal 1799 sede della corte e di tutti i dignitari al suo seguito.

Inutile dire che le spese di questa nuova situazione ricadevano, ancora una volta, sul popolo che veniva ulteriormente tassato per permettere lo sfarzo del Re e dei suoi cortigiani. Si ebbe così nel 1812, un altro tentativo di rivolta passato alla storia come “La congiura di Palabanda” che finì con la condanna a morte dei promotori.

Nel 1847 su richiesta degli Stamenti, Carlo Alberto concesse l’unione perfetta tra la Sardegna e gli stati continentali, una fusione quindi, con la conseguente abolizione delle antiche magistrature locali e degli Stamenti.

Le condizioni di spaventosa arretratezza dell’isola riemersero e si aggravarono, Cagliari fu investita da una terribile crisi economica e i deputati Sardi tentarono di ottenere una legislazione speciale che consentisse la ripresa. L’unificazione del 1861 e la trasformazione in Regno d’Italia, peggiorarono la situazione di degrado e di abbandono dell’isola e ancora oggi, nonostante leggi e sovvenzioni, la questione Sarda è quanto mai attuale e nessuna soluzione immediata si può ipotizzare.

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